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 La faccia oscura della Luna:
Isabella


Era matematico. Come due e due fa quattro.
La sua sola presenza innescava una rabbia incontrollabile.
Del marito non sopportava più nulla…neppure come piegava le calze per riporle
nel cassetto.
E appena saliva in macchina lo tempestava di urla…metti le mani sul volante,
guidi come un cane, ti manca l’acqua del tergicristalli.
Quando un volta, Enrico si era irritato perché lei si scaccolava, facendo ridere
una scolaresca sul marciapiede in attesa del verde, e aveva bloccato la macchina
al semaforo e se n’era andato, lei lo aveva seguito urlando finché un
automobilista in coda aveva chiamato i vigili urbani che li avevano denunciati e
multati.
Perché Isabella ed Enrico fossero arrivati a quel punto era impossibile da
dirsi.
Un effetto valanga, ecco…tante piccole incomprensioni, che si erano saldate
nel tempo, come il ghiaccio che si addensa su strati sovrapposti sulla
montagna…una valanga che quando era precipitata a valle li aveva travolti
senza scampo.
Eppure erano stati felici.
Come può esserlo una coppia normale, con i suoi interessi, i suoi viaggi, i suoi
sogni.
Poi lei aveva evidenziato una personalità torbida, fatta di capricci infantili e
di provocazioni inspiegabili. Era diventata asociale, solitaria, non usciva
quasi più e non accettava che il marito volesse continuare a vivere una vita
piena di interessi o almeno a non chiudere le finestre che lo collegavano al
mondo degli altri. E si erano ridotti a sfuggirsi a vicenda, evitando orari che
li facessero convivere nelle stesse stanze. La loro vita era un continuo
nascondere la reciproca presenza, nella trasparenza funesta di due esseri senza
ombra.
Era finita così. Un giorno il mare resto’ immobile, l’onda lontana non giunse
più alla riva, cesso’ la musica della risacca e con essa la loro umanità.

Il contadino, chino sul terreno bianco di brina, sollevo’ il viso, allarmato da
un improvviso stridere di freni, e vide la macchina uscire dal tunnel, planare
quasi con grazia sulla lastra di ghiaccio che riluceva sulla strada e
schiantarsi con un tonfo sordo sul guardrail, per volare poi oltre quel muretto
di metallo grigio e fermarsi contro una quercia con un rumore di vetri infranti.
Lo trovarono riverso su un fianco, appoggiato come se dormisse sul sedile
laterale. Solo il volto era insanguinato da una vasta ferita sulla fronte e gli
occhi guardavano come stupiti il cielo gelido oltre il parabrezza spezzato in
una curiosa raggiera di cristallo.
Sul cellulare i soccorritori trovarono il suo Ice, il numero da chiamare in caso
di emergenza. Era di un amico. Franco ricevette la chiamata dalla polizia
stradale alle otto del mattino e chiamo’ Isabella…mi dispiace, mi dicono che
e’ morto sul colpo uscendo di strada, era veloce e la strada gelata, dovresti
andare all’obitorio per il riconoscimento del corpo.
Franco non la sopportava, indovinava che fosse priva di affetti, una donna
maligna.
Ma due ore dopo era sotto la casa dell’amico morto, dove lo aspettava Isabella.
Enrico era steso su un tavolo di marmo, coperto da un lenzuolo bianco.
Isabella lo guardo’ con occhi incerti, per un attimo il suo cuore la spinse ad
alzare la mano per accarezzare quel volto immobile, una vasta fascia candida
sulla fronte ferita, ma quel barlume di tenerezza si spense in un attimo,
ritirandosi dentro un guscio rigido, senza calore.
Resto’ muta. Firmo’ in fretta i documenti che l’impiegato le porgeva,
sottoscrisse il permesso per cremare il corpo e uscì senza dire una parola.
Una settimana dopo Franco ritiro’ l’urna con le ceneri di Enrico e le porto’ ad
Elisabetta.
Non lo fece neppure entrare in casa, prese l’urna e la mise nel portabagaglio
della sua macchina; e la dimentico’ fino a quando, una mattina grigia di neve,
non vide una lastra di ghiaccio che copriva la carreggiata e ricordo’ la morte
del marito. Fermo’ la macchina senza spegnere il motore, prese l’urna e la
svuoto’ nel torrente.
Poi torno’ a casa e non uscì più.

Quando i vicini videro filtrare del fumo da sotto la porta dall’appartamento
della vecchia signora, che ogni tanto intravedevano dai vetri della finestra…
nessuno ricordava di averla mai vista uscire di casa e l’unica volta che un
bambino l’aveva sorpresa a portare dentro le buste della spesa, che un garzone
le lasciava sull’uscio ogni settimana, si era spaventato ed era tornato dalla
madre urlando “la strega, la strega” …prima suonarono a lungo il campanello,
poi chiamarono i pompieri che forzarono la porta ed entrarono nell’appartamento.

Si trovarono in una casa buia, con cumuli di giornali ammonticchiati in ogni
angolo. Dei veli neri coprivano ogni mobile, ogni singolo oggetto, come in una
chiesa per il Venerdì santo.
Il fumo proveniva da una stanza, l’unica illuminata da un lampadario che
riversava una cascata di luce rossastra nel piccolo ambiente.
Lei giaceva sul letto che occupava metà della camera, morta da poche ore…un
filo di fumo acre usciva da un cuscino a fianco al letto, incenerito dalla
sigaretta che le era caduta un istante prima che il suo cuore si fermasse.
Era vestita da sposa, una macchia bianca troppo grande per quel corpo diventato
minuscolo per i troppi anni e dispersa sul letto invaso di decine di lettere e
di fotografie.
Non c’erano mobili, in quella stanza. Solo una gigantografia a coprire un’intera
parete, dove Isabella abbracciava Enrico sullo sfondo dell’Oceano, che si
infrangeva sulla scogliera di un mondo scomparso…l’unico istante che il tempo
nefasto non era riuscito a cancellare.
Non aveva resistito ai marosi, Isabella, ma anche lei un tempo era stata felice.

Tonino Serra

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