Suggestioni:Al proprio posto.


Mi hanno insegnato a “stare al proprio posto” fin da piccolo.
A casa non dovevo dare fastidio a chi sfaccendava in
cucina o in su sostru ; in vicinato potevo solo guardare le agili mani di tziu
Chicchinu che tessevano con le canne is cadinus; alle elementari il mite maestro
Usai ci disse fin dalla prima ora di scuola di non lasciare il banco assegnato
senza il suo permesso. Anche al liceo, il professor Giovanni Piroddi non ci
voleva vedere in giro, perché si disturbava l’ordine della classe. Poi, in
chiesa, i maschi a destra e le donne a sinistra dell’altare, come in epoca
bizantina…forse perché le donne sono tentatrici e a loro e’ riservata la
sinistra, che e’ sempre la mano del diavolo…come un tiro mancino, uno sguardo
sinistro, un sinistro stradale…ah, il significato nascosto delle parole.

Eppure mi rendevo conto che stare al “proprio posto” non significava essere
immobili e che rispettare l’ordine non equivaleva a rinunciare al cambiamento e
alla crescita personale.
Era solamente un modo per rispettare gli altri, di
attendere in silenzio il momento adatto per prendere liberamente la parola, per
affermare le proprie convinzioni in un serrato confronto. Potevo osservare
tutto, leggere ogni riga dei pochi libri allora a disposizione dei ragazzi, ero
autorizzato a rubare la conoscenza da ogni parola, da ogni gesto dei vecchi del
vicinato e dei maestri di scuola. Potevo assorbire come una spugna i raggi del
sole per poi goderne il calore e renderlo forza viva, quando fosse giunto il
tempo.
Il posto che ci veniva assegnato era, appunto, una collocazione fisica,
non mentale.
E la cultura che ci veniva infusa dagli insegnanti come un magico
plasma, ci preparava alle incursioni in mondi sconosciuti, dove nessuno sarebbe
più stato al “proprio posto”, ma lo avrebbe ampliato, esplorato, fatto suo.
La classe era un luogo dell’anima dove si diventava adulti sotto la guida di
insegnanti attenti e severi, che lavoravano per lasciare un’impronta nella
nostra crescita evolutiva…insegnanti interpreti della loro missione “in
signo”, capaci di imprimere nelle nostre giovani anime il segno della scienza e
dell’autocoscienza . Come nell’Eden, mangiavamo felici la mela dell’albero della
conoscenza, che sfuggiva al concetto di maledizione divina per consegnarci alla
vita…una atto di disobbedienza, che ci collocava fuori dal “nostro posto” per
appropriarci della parola, della critica, della libertà.freedomPoi venne la
politica, con i suoi riti e l’implicito permesso di entrare nel mondo degli
adulti e di stare più al “proprio posto”, nella consapevolezza di vivere in una
società aperta e libera, dove la cultura e la sensibilità dei singoli serviva a
migliorare gli assetti sociali, a superare i ritardi storici, ad aprirci verso
una società più equa. Ricordo che entrai nel mio partito nell’ottobre 1962,
quando compivo sedici anni, nei giorni convulsi della crisi di Cuba, che
minacciava di far precipitare il mondo nella Guerra nucleare. Feci una scelta di
civiltà e non me ne sono mai pentito. Altri fecero una scelta diversa, opposta
alla mia, che poi abbandonarono nel tempo; ma la fecero con la tensione morale
e la visione utopica che governa da sempre la giovinezza, quando il cuore batte
così forte da non lasciare distinguere la voce della ragione. Ma esisterebbe la
civiltà senza la sfrontatezza, l’incoscienza, l’arroganza stessa della
giovinezza? Senza questi sconfinamenti nella mitologia di un Prometeo che si
ribella agli dei, non sarebbe esistito il ’68, che fu l’epopea delle conquiste
sociali più radicali capaci in breve tempo di sovvertire gli antichi valori
immutati nel tempo. Ma alla base di quegli anni convulsi c’era una cultura
solida appresa dai nostri maestri nelle aule affollate della nostra
infanzia…ci sentivamo, noi ragazzi del ’68, gli ultimi testimoni delle
tensioni risorgimentali, i nostri volti erano quelli dei ragazzi di
Calatafimi…i cattivi maestri sarebbero comparsi dopo, quando la cultura
vivifica fu sconfitta dall’ideologia acritica, la militanza granitica sostituì
il rispetto delle idee altrui, il privato divenne politico: l’esasperata ricerca
della libertà’ per tutti si tramutò nella negazione di quella più intima, che
appartiene ad ognuno di noi e preserva la dignità di ogni persona.

Il professore di filosofia, lo stimatissimo Peppino Piroddi, ci spiego’ che l’Homo
sapiens aveva impiegato diecimila anni per conquistare la libertà e da almeno
due secoli lottava per raggiungere l’uguaglianza…senza avere capito ancora
cose fosse veramente la libertà e quindi, di conseguenza, cosa significasse
essere più uguali. Lui aveva le sue idee, che non collimavano neppure un po’ con
le mie e con quelle di Gianfranco, ma ci spingeva a ragionare, a prendere il
largo abbandonando ogni certezza per raggiungere gradi di verità sempre più
ampi: la sua cultura era un sasso che, lanciato nel lago immobile, originava
onde sempre più ampie, capaci di captare nuove nozioni e nuovi saperi.
Non finirò mai di ringraziare questi maestri della mia vita che, pur appartenendo a
partiti-chiesa, dove il dissenso era appena tollerato, mi spingevano a studiare
di più perché solo così potevo essere libero. Era bello urlare in classe le
proprie convinzioni, combattere per le proprie idee. No, non ci dissero più di
stare al “nostro posto”.

Mi innamorai della Rivoluzione Francese perché
aveva rotto gli antichi schemi feudali; perché a Versailles, nel 1789, intere
classi sociali non stettero più al “proprio posto” ma decisero di cambiare il
mondo, di darsi nuovo ordinamenti e di costruire lo stato dei Diritti. Mi
piacevano i Giacobini, ero affascinato da Saint Just, dallo stesso Robespierre,
l’Incorruttibile. Sentivo la sacralità della rivoluzione, che mi fece anche
inizialmente giustificare gli ideali bolscevichi, poi traditi nella prassi
politica. Ma dal quelle esperienze giovanili trassi anche la conclusione che
esiste nello stato un ordine sociale basato sulla suddivisione dei compiti,
sull’equilibrio dei poteri.
Temo che oggi viviamo in un clima di dissoluzione
di ogni ordine, in una società dove non esistono confini netti e rispettati tra
i diversi poteri consacrati dalla cultura giuridica occidentale e riversati
nella nostra Costituzione.
Forse sto invecchiando…si’, perché ogni tanto mi
ritrovo a dire che “ai miei tempi” le cose andavano meglio. So che non e’ vero,
che oggi stiamo meglio e che i miei timori sono solo dettati dal desiderio che
la società diventi più buona e responsabile.
Forse dovremmo tornare alla
filosofia di “stare al proprio posto”, ma solo dopo avere incalzato i Potenti a
operare meglio, a essere più onesti, a rispettare chi il potere lo subisce senza
aver alcuna protezione. A fare il nostro lavoro nelle aziende, nella scuola,
negli ospedali senza sentire il peso della corruzione e delle clientele, senza
difendere l’esistente per paura o per interesse personale.
Lo so, chiedo molto, eppure sono sicuro che questo nostro bellissimo Paese, abbia in se’ un
cuore indistruttibile…come quello della quercia, che sopravvive al fulmine e
riprende a vivere.

 

Tonino Serra per Medasa.it

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