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La faccia oscura della Luna 

  Carrula 

Il prof. Montaldo ci aveva guardato con occhi gelidi ed era stato
categorico…se non trovate un cadavere per l'esame pratico, l'appello salta e
l'esame e' rimandato a gennaio.
E così, noi  quintanni…una ventina sui 400 ragazzi  che cinque  anni prima si
erano iscritti in medicina…cominciammo a dare la caccia al cadavere battendo
le cliniche e gli ospedali della Città. Perdere la sessione avrebbe significato
ritardare la laurea e molti di noi avevano già un posto assicurato se si fossero
laureati in tempo.
Fu Giovanni, un collega di Fonni a trovarne uno e a presentarcelo come un trofeo
da caccia grossa…una donna morta nell'ospedale psichiatrico dopo una crisi
convulsiva…e noi quel cadavere ce  lo tenemmo stretto per paura che lo
seppellissero prima di servircene per l'esame, mentre Giovanni dal giorno fu
chiamato per il suo fiuto…cane fonnese.
Ci trovammo il giorno dopo in ospedale, nel blocco C, una palazzina rossa
immersa nel verde. Noi venti e il professore con l'immancabile Ulderico, il
mitico tecnico settore  che era il nostro nume tutelare. Il cadavere era steso
nudo sul lettino di acciaio…sesso femminile, adipe abbondantemente
rappresentato, macchie cadaveriche ipostatiche…
Il professore pratico' un taglio xifo-pubico, mise allo scoperto il cavo
addominale e assegno' ad ognuno di noi l'organo che dovevamo estrarre e
illustrare…e non perse l'occasione per fare una battuta macabra quando,
vedendo tra di noi un collega di san Vito, con la barba lunga e tristu ke nui,
lo salto' mormorando…lei no, lei deve essere un parente.
A me toccò segare il cranio per impadronirmi dell'ipofisi. E fu per questo che
ricordo tutto, come se fosse stato ieri…perché dovetti stare per dieci minuti 
a contatto con il viso di quella donna morta, che stavamo svuotando come uno
scrigno, come un vaso di Pandora…poi vidi…e chiamai il professore.

Si era capito che Carrula stava male quando dal terrazzino di casa sua, che
guardava direttamente sul campanile di san Lussorio, aveva lanciato una tegola
su Maroleddu, che passando le aveva rivolto un sorriso. Il bambino voleva solo
essere gentile ma lei lo aveva preso per un gesto di scherno, e per poco non lo
ammazzava.
Dopo quel giorno Carrula non ebbe più un momento di calma. Non dormiva più e
tutta la notte se ne stava in giro per il paese, bussava a tutte le porte,
destava tutti  battendo sui canali di scolo con le pietre accompagnando con quel
frastuono un canto sguaiato e privo di senso, correva nei vicoli bui inseguita
dai cani ululanti.
E di giorno stava sul terrazzino di cucina, da dove insultava chi passava, tanto
che la gente evitava quella stradetta e faceva un lungo giro per andare a messa.
Il suono delle campane accentuava la sua agitazione…urlava contro quella voce
di bronzo, minacciava il campanaro agitando in aria i pugni  chiusi e le sue
urla vincevano il duello con le benigne campane. La gente ormai ne aveva
paura…come di una coga, la strega che da sempre tormentava il mondo e lo
avvelenava.
Poi Carrula non mangio più, non bevve più.
Ma la sua voce rauca echeggio' ancora per giorni prima che il sindaco decidesse
di chiamare i carabinieri per farla ricoverare in manicomio.
Il giorno che presero Carrula, il vicinato pianse tutte le sue lacrime.
Era stata sempre una donna dolce, di compagnia, buona, generosa…e tutti
avevano seguito prima preoccupati e poi angosciati la trasformazione mostruosa
della sua personalità. Allora non si conosceva nulla delle malattie mentali e se
ne aveva una paura istintiva; e chi presentava segni di squilibrio era
semplicemente chiuso in manicomio, da dove spesso non si usciva  più. Le donne
ne erano particolarmente colpite, minate dalla fatica fisica e dalle numerose
gravidanze e spesso vedove giovanissime senza futuro.
Carrula si accorse dalla finestra delle intenzioni dei carabinieri…e allora
urlo' con la poca voce  che le era rimasta dopo settimane di sofferenza,
impreco', bestemmiò, lancio' sugli assalitori tutto quello che conteneva la sua
povera casa…e quando siu Juanni sfondo' la porta con un calcio, Carrula corse
per la casa come un animale in trappola e si rifugiò tremante sotto il forno da
dove fu tirata  fuori dai giovani militari, pallidissimi e angosciati per cio'
che stavano facendo a quella povera malata.
Legata come una belva pericolosa, costretta nella camicia di forza,  Carrula fu
caricata sulla camionetta dei carabinieri e portata via tra due ali di folla
piangente…lassaidedda, pobora femmina, ka non fait mali a nisciunus…e il
vicinato resto' muto dopo che la casa di Carrula, ormai deserta, fu sprangata
come quella di una colerosa.
Fu messa tra gli agitati, Carrula…nel blocco C del manicomio di Cagliari,
costruito in una vallata sotto Monte Claro, tra i resti sommersi di un'antica
necropoli…i morti scomparsi da secoli che accoglievano i morti viventi preda
della follia.
Non esistevano farmaci ma solo il contenimento brutale sui lettini spogli, la
camicia di forza, l'elettroshock…fino alla totale distruzione di ogni
tentativo di ribellarsi. Inebetiti, i malati vivevano in uno stato di coscienza
crepuscolare, senza albe o tramonti, in una foschia grigia che ottundeva la
mente e sommergeva i ricordi.
Carrula trascorse così cinque mesi, finché una mattina la uccise una crisi 
convulsiva che le fece scoppiare il cuore. Da alcune settimane non c'era stato
bisogno più di legarla perché una paralisi le aveva  immobilizzata il lato
sinistro…solo gli occhi cercavano ancora di protestare contro un mondo nemico. 

Avevo rimosso la calotta cranica dopo aver ribattuto lo scalpo sul volto.
I due emisferi cerebrali apparivano grigi sotto il velo meningeo, ma quello di
destra era occupato da una massa maligna, come una presenza aliena in un mondo
di divina fattura.
Il professore osservò il campo anatomico, ci chiamo' tutti…Piergiorgio che
teneva in mano il cuore, Paolo un polmone, Beppe il colon, Franco un rene…e in
silenzio, raccolti in silenzio intorno al corpo sezionato, avvolti nei nostri
camici bianchi,  ascoltammo la sua lezione sui tumori del cervello, perché 
Carrula era morta non di pazzia ma di un cancro che le aveva devastato la mente,
che l'aveva fatta urlare per mesi, che l'aveva esclusa dal suo mondo, dai suoi
affetti.
Sarebbe bastato studiare la paralisi per leggervi la diagnosi e alleviare le
sofferenze, se non per salvare, quella povera anima.
Il professore mi disse di chiudere e suturai il cuoio capelluto con dei punti
veloci, nervosi, mentre Ulderico detergeva il sangue con una spugna bagnata.
Carrula poteva dormire, finalmente…nella dignità del suo corpo
ricomposto…lassaidedda, ka non hat fattu mali a nisciunus.

 

Tonino Serra.

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