Tracciare la storia della radio in Sardegna non significa tracciare quei percorsi dei canali e mezzi di comunicazione ufficiali. Negli anni settanta le rivoluzioni musicali, che furono l’evoluzione delle idee delle radio pirata del Nord degli anni sessanta, fecero sì che in seguito nei decenni a venire queste germogliassero e stabilissero anche le prime radici delle radio libere e private che permisero l’evolversi della musica, dell’informazione, dei costumi e della società dell’epoca. La storia non è una.  È  l’insieme di molteplici esperienze umane e delle molteplici storie e tutte queste vanno raccontate e riportate per formare un tutto che è poi il cammino, il percorso dell’umanità. Il libro di Giacomo Serreli Dropout Music non è solo un’onda sonora lanciata dai microfoni radiofonici che hanno raccolto le voci dei grandi artisti e personaggi che hanno percorso la nostra isola. È un mare di frequenze che ha attraversato le nostre acque marine e l’etere per navigare verso i porti delle comunicazioni e degli scambi culturali i quali non solo hanno permesso alla nostra isola di crescere e di far conoscere la propria cultura, ma di far parte integrante della storia.

 

Perché l’esigenza di scrivere questo libro, che è poi la storia della radio in Sardegna?

Intanto non ha le pretese di essere la storia dell’emittenza privata, delle radio private, in Sardegna.  È un lavoro nato da un desiderio di fare il punto di un’attività di tanti anni e delle cose fatte, per fissare alcuni elementi per i quali si può già iniziare a parlare di una certa storia dell’emittenza privata. Lo spunto, in particolare, mi è venuto pensando agli inizi del 2021 l’uscita di un altro libro che racconta la storia di un altro programma di RAI Stereo Notte che andò in onda nei primi anni ottanta. Io ero un affezionatissimo ascoltatore e quel programma trasmetteva musica un po’ di nicchia e poco commerciale. Mi son detto, ma io quel tipo di musica la trasmettevo in radio prima che nascesse RAI Stereo Notte e così ho voluto raccontare la storia di questo progetto che già facevo in passato. Poi  proprio quel tipo di musica la trasmettevo prima che nascesse RAI Stereo Notte e perciò ho voluto raccontare il mio progetto e da lì il racconto si è allargato ad una serie di situazioni che mi hanno portato in contatto con il mondo della musica. Perciò oltre alla attività radiofonica i concerti, le rassegne come organizzatore e divulgatore per promuovere la musica sarda.

Però tu Giacomo Serreli, volente o nolente, sei cosciente che fai parte di questa storia posto che come giornalista professionista sei, se non il primo, uno tra i primi che, sia nell’attività radiofonica che televisiva, ha promosso  la cultura sarda ed un certo tipo di musica. Perciò bisogna dartene atto.

Nel mio piccolo ho cercato di dare un mio contributo perché anche certi aspetti del nostro patrimonio musicale, stando in questo ambito, potessero emergere. Ho voluto dare visibilità a questo tipo di realtà avendo la fortuna e il privilegio, perché tali erano questi, di poter disporre di un mezzo per potere comunicare e diffondere questa ricchezza culturale attraverso il mio programma radiofonico e condurlo in piena libertà e trasmettere quelli che erano i miei gusti musicali.

Perché la scelta del titolo del tuo libro  Dropout Music?

Dropout Music era il titolo del mio primissimo programma radiofonico quando cominciavo a frequentare le prime radio private. Il 9 Ottobre del 1975 sono andato in onda per la prima volta in una radio privata, era Radio Brasilia a Cagliari, con un programma che si chiamava Dropout Music, e che prende spunto da un fumetto di un autore americano, il quale aveva disegnato i Dropout, due naufraghi che stavano in una isoletta completamente emarginati. Ho preso spunto da quello per indicare, tutto sommato, che la musica che trasmettevo era comunque musica emarginata e non musica di grande consumo, era musica assolutamente di nicchia. Poi buona parte dei materiali che io utilizzavo erano dischi di importazione, perciò musica che non circolava in Italia.

Tu sei un giornalista professionista che ha lavorato sia nell’ambito radiofonico che televisivo. Anni fa uscì un brano Video killed the radio star , dove collochiamo Giacomo Serreli nel suo amore tra la radio e la televisione?

Più a contatto con la radio.

Perché la radio?

La radio forse perché ho iniziato da lì.

Allora perché è un amore primordiale?

Assolutamente, ma anche perché forse è un mezzo più semplice e più mediato nel catturare l’eventuale contatto con chi ti ascolta; meno problematico dal punto di vista delle realizzazioni tecniche. Poi perché la radio ha sempre quell’immaginazione, quel fascino. La televisione ti propina tutto subito. Dovendo fare una scelta tra i due mezzi con i quali ho lavorato è la radio. Con questo non voglio affermare che rinnego assolutamente la televisione che è stata preponderante nelle mie attività, però rimane il fascino della radio.

È cambiato il modo di fare la radio oggi e che cosa apporteresti se oggi dovesse nascere la nuova radio?

È difficile a dirsi perché il modo di fare radio rispetto a quando ho iniziato io è cambiato molto anche perché c’è stato l’avvento della visual radio che per me è un contro senso. Non capisco come un programma radiofonico possa essere seguito attraverso gli occhi. È tutto molto cambiato. Io penso, per esempio, per i miei programmi musicali, che sarebbe impensabile oggi tentare di proporli così come li proponevo quarantacinque anni fa. Intanto la libertà perché sceglievo io cosa trasmettere. Oggi i palinsesti radiofonici, soprattutto per l’emittenza privata, sono praticamente imposti da scelte che vengono dettate dalla grande industria discografica. Non potrei mai permettermi di trasmettere brani come quelli dei Soft Machine che duravano trenta o quaranta minuti e che trasmettevo all’epoca. Oggi questo sarebbe impossibile; è molto più concitato, frazionato; perciò mi viene difficile oggi provare a concepire un programma almeno che abbia la filosofia di ciò che avevo concepito a suo tempo. Intanto vi era  un intento divulgativo, come quello di far conoscere e di far apprezzare musiche e proposte che non circolavano tranquillamente nei canali ufficiali. Oggi mi troverei forse a disagio ad operare come un tempo. Ho fatto delle esperienze radiofoniche in RAI tra il 2010 e il 2014 a Cagliari che duravano mezz’ora e in quel caso sono riuscito a concepire  dei programmi secondo quelli che erano i miei principi. Sono riuscito a fare quel qualcosa che sentivo mio anche in uno spazio che era di mezz’ora.

Nelle tue interviste, specialmente quelle radiofoniche, quali sono gli artisti che ti hanno lasciato una traccia nel cuore?

Adesso per esempio  mi viene in mente Maria Del Mar Bonet, che ho avuto modo di intervistare in uno dei programmi in RAI, per la disposizione di quest’artista nel parlare dei rapporti che aveva avuto nell’ambito della musica sarda, in particolare nella rielaborazione di un brano che fu di Maria Carta. Quello che mi è rimasto impresso è stata  proprio la sua disponibilità e la sua avventura totale verso i suoni del Mediterraneo.

Un’ultima domanda che si appella alla realtà fantascientifica e tecnologica, nel senso che richiama gli ultimi studi che il SETI e la NASA, nell’ambito della comunicazione linguistica, si propongono di ricercare. Se dovessi incontrare delle forme di vita aliene e dovessi proporre della musica a questi extraterrestri, dato che la musica è un linguaggio e possiede delle frequenze, cosa gli proporresti da far ascoltare  per comunicare un qualcosa?

Se dovessero capitare dalle mie parti potrei fargli ascoltare il suono delle Launeddas perché  hanno una sonorità orchestrale che è frutto della Terra. Sono delle semplici canne lavorate senza particolari sofisticazioni tecnologiche. Ecco gli proporrei un suono primitivo come questo per quanto invece sia molto sofisticato, provenendo da uno strumento povero nella sua essenza materiale, trasmettono invece un fascino sonoro profondo.

 

 

 

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