Radio Alter on the Road Communications ha incontrato Manu Marascia, dj e artista di profonda sensibilità. Dialogare con lei ha significato poter ripercorrere la storia della musica dell’isola e della contemporaneità; del mondo delle sonorità che incontrano i cambiamenti sia tecnologici che umani del passato, per prospettare l’evoluzione del futuro verso nuovi e perenni adattamenti e rivolgimenti reciproci. È il mito dell’eterno ritorno Nietzschiano che attraversa i tempi al di là del bene e del male, perché l’evoluzione segue il suo percorso circolare arcano e misterico.

Quando ti avvicinasti alla musica?

Inizio nei primi anni novanta ad interessarmi alla musica in ambito professionale.

Come ti sei avvicinata alla musica?

Ero un’adolescente tredicenne che entrava in discoteca non per ballare, ma per stare affianco alla cabina del dj. Erano gli anni ottanta. Amavo la musica. E la figura del dj dava l’impressione di un “essere quasi inarrivabile”. Iniziai a muovere i primi passi nel mondo della musica al Grillo di Assemini.

Che tipo di musica mettevano a quell’epoca?

Erano gli anni ottanta e c’era tutta la “British Ivasion” e mi ricordo ancora come era strutturata tutta la serata. Il dj era un certo Gigi , il dj storico del Grillo. Purtroppo non ricordo il cognome.

Intervistando altri dj tuoi colleghi risulta essere il primo dj storico nell’ambito campidanese Vittorio Podda.

Credo anch’ io sia stato lui il primo, anche se non lo ho conosciuto di persona e ritengo la figura del dj “inventata” nel senso che prima i dj sfumavano un disco e poi ne mettevano un altro.

Quella che viene denominata miscelazione?

La miscelazione è arrivata dopo. Prima c’è stato il sfumare un brano per passare a un altro. La miscelazione è arrivata prima con degli artifizi arrangiati, nel senso che si era dotati di piatti, giradischi, denominati Lenco, che avevano 33, 45 e 78 giri. Il dj giocava tecnicamente cercando di spostare una levetta dal quale nasceva la così detta “messa a tempo del vinile” .

Perciò era essere anche “artigiani” della musica.

Si essere proprio degli artigiani. Il missaggio è venuto in un secondo momento in maniera artificiosa e artigianale da questo punto di vista.

Si potrebbe definire questo periodo anche quello dell’essere artisti per riuscire a fare le cose con arte.

Artisti si perché non era una tecnica condivisa da tutti. Era una tecnica che alcuni adottavano e altri no. È il solito discorso della “vecchia e nuova scuola” che si riscontra sempre in tutto, sia nell’arte che nella musica, che nella cultura. Ci sono gli “Old School” che pensano che tutto ciò che appartiene alla loro generazione e che c’era prima è meglio, e il dopo è peggio. In realtà io non mi colloco in questa categoria. Non sono una nostalgica del vinile; non ho mai sostenuto che un vero dj debba saper mixare o saper usare i piatti. Ciò è una questione tecnica. Negli anni si è passati prima dalle orchestrine, poi ai complessi, alle orchestra del liscio, ai dj che mettono un pezzo dopo l’altro e poi i lenti, e man mano avviene l’evoluzione del dj.

Perciò tu accetti questa evoluzione?

Non solo l’accetto, ma la reputo necessaria. Non sono una nostalgica. Certamente vivo i miei ricordi con nostalgia umana, con grande affetto e piacere, ma non ho mai affermato “era meglio prima”. È molto meglio adesso, anche se prima si guadagnava di più. Per me non è meglio prima o dopo. Per me è meglio ora, perché ora ci sono, ora ci siamo, e ora succede. Quello che è successo resta, nelle coscienze, negli anni, nei ricordi, nei piaceri e dispiaceri; quello che succederà non lo sappiamo, e ovviamente sto parlando dal punto di vista musicale e quello che conta è “adesso”. Al limite quello che è stato ha un suo valore come bagaglio personale. Ecco perché ritengo errato affermare il discorso che oggi un ragazzo di vent’anni non ha una cultura musicale. Un ragazzo di quell’età avrà la sua cultura musicale, e con l’andare dell’età ne conseguirà o amplierà ancor di più le sue conoscenze. Per tale motivo ribadisco di non essere né nostalgica e né “giovanilista” nell’affermare “tutto ciò che è giovane” è giusto. Esistono pregi e difetti e valori positivi e negativi in ogni aspetto.

Torniamo alla “British Invasion”.

Mi ricordo addirittura com’era strutturata la serata.

Come era strutturata?

Funzionava così: la magia, per lo meno quella che ho vissuto a tredici anni, era: al Grillo c’era una scalinata con una vetrina, perciò relaziono qui il discorso della musica anche all’immagine, dove venivano esposte tutte le copertine dei dischi Mix , delle ultime uscite discografiche che si sarebbero ascoltate all’interno del locale. Già questo aspetto lo consideravo all’epoca elemento di grandissimo fascino. La serata musicale era strutturata all’inizio con una sigla d’apertura, una Overture, un brano dei Van Halen del 1984, e dopo a seguire tutti i successi ballabili del momento, trasmessi anche dalle emittenti radio. Bisogna fare presente che in quel periodo non esisteva una distinzione netta tra la musica che si ballava in discoteca e quella che si trasmetteva in radio. A metà serata susseguivano i lenti. Ricordo la musica degli Alphaville, Paul Young, Spagna, ecc.. Il Grillo veniva identificato per la sua musica, per la British Invasion, perché dopo una certa ora, prima della fine della serata, il dj metteva tutti i successi inglesi, dai Simple Minds, Cure, U2, ecc. Già a fine serata c’era così una musica alternativa dei Dandy, dei Punk,  ecc.

Ecco che l’Etnomusicologia qui interviene sulle divisioni generazionali e di gruppo che la musica o un genere musicale crea

Tanto è vero che in questo locale, dove prima non c’erano i privée, ma i posti dove tutti di potevano sedere, una in particolare era una zona occupata dai ragazzi più alla avanguardia, che indossavano un abbigliamento totalmente di stile inglese, con i capelli cotonati in alto. I maschi con le giacchette e la camicia bianca e un certo tipo di scarpe. Questo gruppo ballava proprio verso fine serata la loro musica. Il pubblico del Grillo era eterogeneo e le serate suddivise in due parti: la prima serata per i ragazzi e la seconda per gli adulti maggiorenni. La serata dedicata ai giovanissimi iniziava alle cinque del pomeriggio e terminava alle nove.

C’era meno alcool e più controllo così

C’era una consumazione e ricordo che io prendevo un drink denominato Alexander.

Poi i giovani non avevano tanti soldi in tasca

Diciamo le cose come stanno. La droga c’era anche all’epoca. Però era diversa da quella che gira oggi nei locali. È inutile nasconderlo.

È inutile fare ipocrisia

Si. La droga è sempre stata legata anche alla musica, a certi tipi di musica, sia negli anni settanta, ottanta, novanta, ecc. Al Grillo non ricordo ambienti giovanili immersi nella droga. C’erano i gruppi di tendenze musicali diverse sia nell’abbigliamento che nei gusti, ma non dediti alla droga.

Era una forma di contestazione l’abbigliamento?

Assolutamente si. Però la situazione che ho vissuto io era più che altro “modaiola di facciata”, nel senso che erano slegate da determinate usanze quali droghe ecc. Erano anni in cui l’eroina regnava. Perciò erano gruppi di facciata più che di contenuti musicali, perché la scena trasgressiva di rottura avveniva in altre situazioni, che io non frequentavo perché abitavo in un piccolo paese, non avevo patente e scarsa facilità di spostamento. L’altra scena più hard si svolgeva in altre situazioni che non frequentavo. Perciò ho vissuto questi come miti da lontano. Le conosco per leggende metropolitane, per sentito dire e per narrazioni, ma non per vissuto. Poi fino a che punto fossero leggende o realtà questo non posso confermarlo. Posso affermare che ci sono stati dei personaggi che hanno portato sulla scena delle rotture ed evoluzioni sia musicali che artistici che fanno parte dell’evoluzione musicale e sociale come protagonisti del cambiamento.

Dagli studi fatti non si può escludere che certe musiche hanno una stretta relazione con le droghe. Nei Rave la relazione droga sintetica è palese. Ad ogni movimento musicale compare in sordina poi un mercato parallelo.

Si, per esempio, nel Reggae la marihuana; l’Hard Core Techno con le sostanze più eccitanti quali lo speed; ricordiamoci che fin dai tempi dei Beatles i giovani si facevano di LSD.

Si è vero ricordiamo “Lucy in the Sky with Diamonds”, e le copertine che richiamavano ai colori e immagini psichedeliche

E ne vogliamo parlare dei Rolling Stones? David Bowie e Nina Hagen? All’epoca ballavo “New York”, di Nina Hagen, un brano ballabile. Effettivamente ogni genere musicale, non per natura, ma per affinità associative di pensiero, ha una droga che lo rappresenta.

Parliamo del dj che entra nella cabina. È un pilota? Come tu strutturi invece la tua serata? Come riesci ad avere in pugno il tutto e la regia del tutto?

Non c’è una tecnica. In realtà non c’è una tecnica ma c’è un accorgimento che molti non adottano e che io invece ho sempre attuato, ossia, “leggere la pista”. Significa diventare altruisti in quel momento. Nella corrente dei dj denominati di nicchia, anche se ormai non è più nicchia, o dj alternativi, c’è sempre stato il motto “io suono ciò che mi piace, e se al pubblico piace bene, altrimenti no problem”. Questa è una caratteristica che secondo una scuola di pensiero molto Old School, perché veramente Old School nel pensiero, rendeva un dj “cool”. Non ho mai sostenuto questo discorso. Sono sempre riuscita a suonare ciò che mi piaceva, e che avesse comunque riscontro tra il pubblico prendendo anche degli accorgimenti. Faccio sempre questo esempio: se ho cento brani, li ho perché mi piacciono tutti. Se in una situazione mi rendo conto che di questi cento brani, quaranta non li posso suonare, non li suono. Questo non significa scendere a compromessi. Significa semplicemente suonare gli altri sessanta che mi piacciono e che sono più adatti ad un certo contesto e ad un certo “mood”, o all’umore del pubblico che hai di fronte.

Perciò leggere la pista è rendersi conto di un umore e situazione emotiva del pubblico

Assolutamente si.

Questo è essere un poco psicologi e sociologi di chi si ha davanti

Non mi azzarderei a definire ciò a tale livello

Ma si ha l’occhio abituato a leggere la pista

Di sicuro bisogna saper leggere dei comportamenti, e la lettura degli stessi non è così palese. Ci si accorge di ciò da una gestualità del pubblico, dalle sue movenze, dal suo osservare sia il dj o altro.

Ecco la gestualità alla quale mi riferisco. È una semiotica gestuale

Da lì ti rendi conto se un pubblico c’è e si vuole veramente scatenare e ballare, o se è un pubblico esigente verso una musicalità più tranquilla o se ha bisogno di essere chiamato perché è più timido. Un pubblico timido significa che, per esempio, se suono in una piazza, devo tenere presente che ci sono famiglie, bambini, adulti, adolescenti, ecc. Gli uni si influenzano con gli altri e quindi portarli davanti al palco è molto difficile. Se invece suono in un Rave dove ci sono duemila ragazzi non mi si presentano di questi problemi. Dove c’è un pubblico più inibito il lavoro è differente e diverso dal Rave. Devi coccolare il pubblico e non spaventarlo aggredendolo. Devi accompagnarlo per mano. Ma per fare questo il pubblico presente deve avere fiducia in te.

Come si conquista la fiducia?

Ci ho messo trent’anni. Non lo so e non ne ho idea. È un professionismo che acquisisci lavorando nel tempo. Se sapessi qual è il segreto lo venderei a caro prezzo, ma non lo so.

Adesso entriamo nell’elettronica degli anni novanta.

L’elettronica già nasce negli anni ottanta con I Depeche Mode e altri.

Si adesso entriamo nella tecnica e strumentazione.

Si negli anni novanta la figura del dj viene finalmente riconosciuta dalle società che producevano gli impianti e le diverse attrezzature per i dj. Qui nasce il famoso “Technics 1200”, e se non sbaglio già dagli ottanta era presente sul mercato.

A cosa serviva?

Era un famoso piatto, e che tutt’ora è il giradischi ufficiale che usavano tutti i dj in tutti i locali. Questo ti permetteva degli accorgimenti tecnici perché c’è un pitch che permette la variazione della velocità e di fare i missaggi.

Possiamo qui constatare che è avvenuto il passaggio dal dj “artigianale” al “dj professionista”? Non ci si inventa più, la tecnologia inizia a delineare dei percorsi. Questo mestiere non si inventa.

All’epoca no, adesso si.

Vediamo i vari passaggi perché oggi abbiamo anche i “dj stars”.

Possiamo affermare che la situazione si è estremizzata in ogni senso. Negli anni novanta non ci si svegliava la mattina e si diventava dj. Perché prima di tutto l’acquisto della strumentazione aveva un costo alquanto elevato. Solo uno di questi giradischi aveva il costo di quasi un milione e duecento mila lire. Ne servivano due e il prezzo raddoppiava. Aggiungiamo poi il costo di circa cinquecento mila lire per un mixer. Poi il costo delle casse e i vinili. Il prezzo di un vinile andava dalle dodici alle tredici e quattordici mila lire l’uno e perciò se si voleva diventare un dj professionista la motivazione doveva essere forte e non improvvisata. Oltre al budget per l’impianto inoltre vanno messo in conto le qualità professionali del dj e la tecnica, che non si apprendeva dal nulla e non era per niente semplicissima.

Perciò anche i vinili se li doveva comprare il dj?

Le discoteche più grandi e importanti come il Grillo li acquistavano loro. In genere un dj lavorava in una determinata discoteca e perciò poteva usufruire di quella gamma di vinili concordati con il proprietario o il gestore del locale. Possiamo fare presente che il dj, che lavorava in queste discoteche, usufruiva dei vinili comprati dalla discoteca e la sua mansione era come quella del barman, del buttafuori e del guardarobiere, di tipo impiegatizio, perché si operava solo per quel locale, in quegli anni ottanta. È negli anni novanta che il dj inizia a diventare una “pop star”. Da questo momento è lui che acquista i suoi vinili e quelle spese ricadono sulle sue tasche. Perciò non ci si improvvisa a diventare dj proprio per le alte spese. Solo chi era molto motivato si impegnava in ciò. Essendo inoltre molto motivato si doveva possedere il “sacro fuoco della musica”, una profonda passione e dedizione. È proprio negli anni novanta che nascono le figure dei dj più colte in campo musicale. È vero che oggi abbiamo i dj super stars che guadagnano più delle pop stars, e richiamano decine di migliaia di presenze di pubblico, ma dal punto di vista musicale e culturale non presentano quel bagaglio di conoscenze dei dj degli anni novanta. Per questa ragione ritorno al discorso se era meglio prima di adesso. Qui sto solo sottolineando una differenza, poi l’emissione di un giudizio positivo o negativo è una visione soggettiva e personale. Il mio discorso è quello di un’analisi oggettiva. Così se veramente eri un appassionato di musica, per iniziare questa carriera dovevi “tirar fuori” circa cinque milioni di lire per l’acquisto della suddetta strumentazione, poi in più dovevi incontrare anche chi ti tramandava quell’arte che non imparavi da youtube o da un tutorial o dalla televisione. Bisognava che ci fosse qualcuno che te lo insegnasse, e non era per niente facile che quel qualcuno fosse così disponibile a farlo, a tramandare la propria. La differenza delle arti in generale, come quella degli artigiani che tendono a trasmettere i loro saperi alle generazioni future, i quali non sono gelosi delle loro arti in sé, ma dei loro segreti. Invece il dj degli anni novanta era molto geloso di questa situazione, e questo è anche comprensibile perché era un mestiere che non ti garantiva di viverci. Dovevi fare continui sacrifici.

Ricordo qualcosa di simile accadde nel mondo della trasmissione delle Launeddas e del’arte del suonarle

Non conosco la storia dei suonatori di Launeddas

Però è simile. Si era in pochi. Si era gelosi nel trasmettere le proprie conoscenze artistiche. Si lavorava poco rispetto ad oggi che ci sono più feste e sagre paesane.

Però nel nostro ambiente negli anni novanta non era neanche un fatto del “non te lo insegno perché poi mi porti via il lavoro”. Il lavoro, un dj di un locale, lo aveva per anni. Non c’era un altro che ti poteva portare via il lavoro. Era proprio un fatto di gelosia in sé.

C’è un qualcuno che ti è caro e che ti ha insegnato un qualcosa?

Nessuno. Ho imparato assolutamente da sola osservando quello che facevano gli altri dj alla consolle, cercando di capire cosa stesse succedendo e provando da sola a fare lo stesso. È stato un tempo lungo che ha visto susseguirsi molte fasi. Poi alcuni personaggi della scena mi hanno completamente ispirata.

Chi in particolare?

In assoluto Fabrizio Minozzi.

Perché questo dj rispetto ad altri? Cosa ti ha ispirato di più?

Prima di tutto perché è un dj carismatico. Fabrizio Minozzi ha lanciato uno stile e ha fatto voltare pagina alla scena dei dj. Fabrizio ha voltato pagina dalla solita musica funky americana verso altre sonorità. Per opera di Fabrizio Minozzi, il mio “idolo” ho conosciuto la prima musica alternativa, le serate house ed acid.

Cos’è l’house music?

L’House music in realtà è tutto adesso. All’epoca la house music era un movimento. Prima era più semplice identificarla, adesso lo è molto meno. Diciamo che è un termine abusato. La House Music era un movimento americano, dei dj americani, soprattutto di Chicago e Detroit, che iniziano a prendere dei pezzi classici con sotto una batteria elettronica, la famosa “Roland TR 909” , una batteria che fa ancora storia e che tuttora detta legge per le sue sonorità. Questi dj non fanno altro che mixare queste batterie elettroniche, la 909 in assoluto, con pezzi più classici della disco music ecc. Da lì prende il nome house music perché fatta in casa. Non era fatta in studio. Si faceva con i dischi in vinile che suonavi e andavi a tempo con questa batteria.

C’è un risparmio nel fare questa musica in casa rispetto ai costi di uno studio?

Certo ma diciamo che nessuno all’epoca pensava che da questo nascesse un fenomeno globale e rivoluzionario che avrebbe cambiato la musica o altro. Oggi si parla di house music impropriamente, ma per house music si intende tutta la musica indipendente rispetto al pop, rock, e ai canali classici di mercato.

Perciò è slegata dalle Major?

No, sei anche sotto le Major oggi però qui si è parlato solo di genere musicale. Le Majors producono house perché il fenomeno è popolarissimo e mondiale.

Il mercato se ne è appropriato dopo

Certo se ne è appropriato dopo diventando un business incredibile. Ecco perché lo chiamano impropriamente oggi house music. Oggi la si fa negli studi con apparecchiature più costose, con artisti molto famosi provenienti anche dal pop. Quindi è rimasta la descrizione vaga di un genere che lo distingue dal rock, dal pop, Country, etnica , ecc.

Invece il dj producer? Non è la stessa cosa il fatto che un dj di Detroit faccia la sua musica e che sia già produttore?

Si infatti da lì nasce la figura di dj produttore. Sino all’epoca il dj era o lo sfigato alle feste come la sottoscritta (ridiamo) … che stava a mettere i dischi  e che non interagiva quasi con nessuno …

(ridendo) Ma qualche soldo almeno lo facevi?

Ma quando mai! Assolutamente no! Era tutto passione ed anche arrangiato. Compravo io i dischi o me li facevo prestare. Li mettevo alle feste dei miei cugini negli ottanta ecc. Perciò, per me, per un periodo la figura del dj era la sfigata, quale la sottoscritta, ma mi sono poi riscattata. Il dj, un certo periodo, non era considerato da nessuno. Prima e anche ora in alcune discoteche c’erano le cabine regia dove il dj rimaneva chiuso e isolato da tutti. Il pubblico non guardava e non considerava il dj. Il dj era un accessorio.

Quando esce dalle cabina?

Dagli anni novanta in poi, con l’avvento dell’house music, il dj inizia a mettere mano nella musica, non solo a suonarla ma a produrla ed è così che abbiamo la nascita del dj produttore. Perciò si afferma negli anni novanta per esplodere nei primi duemila e regna in questi ultimi anni.

C’è un tuo dj produttore che ti ispira, o che ti piace?

No. Io rimango ferma ai dj che mi hanno ispirato e che mi hanno affascinata.

Old School?

Old School nel senso che il mio ricordo è in assoluto Fabrizio Minozzi e poi ce ne sono stati tanti altri dopo, ma uno è Fabrizio.

Tu produci la tua musica?

Si assolutamente si.

Da compositrice e produttrice come nasce la tua musica e la tua ispirazione?

Qui è un po’ complesso. Chiamiamole “anime” , nel senso che ho un’anima conservatrice fatta di musica cantata e melodica. Io sono la fan numero uno degli Abba. Li ascolto fin da bambina. Hanno una magia armonica che nessuno è mai riuscito a riprodurre. Tutt’ora sono trent’anni che li ascolto, riesco a trovare in quella magia di voci tante melodie, nuovi controcanti. Allo stesso tempo sono affascinata dalle Voix Bulgares, le Voci Bulgare. La voce mi affascina e negli anni ottanta questo amore sui timbri vocali si concretizza con i B-52s perché hanno usato la vocalità in modo unico. Lo stesso amore anche per David Byrne e Elisa, i Queen, ecc. Sono una fan scatenata dei B-52s. Mi chiederai cosa centrano gli Abba con  loro? C’entrano perché la mia mente è veramente Open Mind. Sono immersa in tutte queste sonorità come sono immersa anche nelle sonorità Techno. Negli anni novanta ho scritto canzoni pop che hanno raggiunto un buon successo commerciale e oggi riconosco di avere acquisito la capacità di comporre la struttura canzone nelle sue linee melodiche che armoniche.  Non ho schemi nei gusti musicali. L’altra mia anima che ama la musica elettronica, o concreta, o atonale, in tutte le denominazioni possibili, che non ha delle vere e proprie regole musicali, mi permette di cimentarmi in queste sonorità, a volte riuscendo a conseguire degli ottimi risultati e altre volte no. Se qualcuno suona alcuni accordi di una chitarra immediatamente vengo ispirata per la stesura di una melodia come allo stesso tempo in uno studio con gli strumenti elettronici, mi è possibile creare delle tracce che fanno ballare la gente. Perciò non so dirti da dove viene l’ ispirazione, dipende da quello che devo comporre o dal progetto che devo realizzare con le persone con le quali collaboro.

Cosa cambieresti in questa Cagliari musicale se vorresti proporre un qualcosa e portarla a livello internazionale? Cagliari è una città provinciale sotto certi aspetti

Cagliari è adesso una città provinciale. Tempo fa non lo è stata.

Concordo in questa tua affermazione

Dagli anni ottanta agli anni novanta c’è stata la sperimentazione che ha fatto Fabrizio Minozzi. Dagli anni novanta in poi è stata insieme alle altre città d’Italia, e faccio presente che in quegli anni vi erano dei fenomeni dove ancora non imperava la globalizzazione di Internet, Cagliari in campo nazionale è stata, dal punto di vista dei club, assolutamente competitiva al resto d’Italia. Se non addirittura all’avanguardia rispetto a molte città d’Italia. Ci sono state organizzazioni importantissime come l’ “Harder Time”, l’organizzazione con creatore e promotore Claudio Ara, per la quale  Cagliari competeva con le grandi città. Ecco che da Fabrizio Minozzi che sperimenta si è passati alla organizzazione della serata di Claudio Ara che ha regnato per più di dieci anni nel Capoluogo sardo. Cagliari è stata portata così a livelli altissimi in tutta Italia, tanto è vero che ha avuto ospiti di fama internazionale in momenti non sospetti.

Però bisogna dare il giusto merito a voi dj che avete avuto una visione a più ampio spettro nel mondo della musica; qui è il dj che pilota verso nuove vie e movimenti

Ha operato anche un buon direttore artistico in questo caso, e il dj pilota deve essere in grado, lavorando con i Pr e l’organizzazione, di stare in stretto contatto sia dal punto di vista delle affinità musicali e di pensiero musicale. Diciamo che Cagliari negli anni novanta non era per niente una città provinciale. Cagliari è diventata una città provinciale nel momento in cui tutto questo fenomeno, che era di nicchia, e attirava molta gente, nonostante fosse di nicchia, esce da ciò e diventa più popolare, attirando ancor di più un maggior numero di persone e ciò ha lenito il fascino di quella situazione. Tanto è vero che oggi quel movimento così netto e così di rottura non esiste più.

Quando vediamo in televisione un David Guetta o sentiamo un Bob Sinclar cosa si prospetta?

Sono dj pop stars che guadagnano milioni e milioni di euro all’anno. Ciò ha due aspetti, un lato positivo e uno negativo. Hanno massificato il tutto e al favore del guadagno si è sacrificata la creatività. Si è arrivati ad un prodotto standard a un prodotto con “dei paletti” che prima non esistevano, esattamente come nel rock. Fino all’avvento di questa esplosione di business, da un certo punto di vista, in questo settore la creatività era il fulcro. Quello che si creava era quello che caratterizzava l’artista,  ciò che lo rendeva famoso e che lo rendeva assolutamente unico. Oggi questo meccanismo fa sì che la creatività sia abbastanza relativa. Per questa ragione affermo che non esiste il meglio o il peggio, intendevo dire anche ciò, in quanto prima il dj doveva essere anche motivato, mentre oggi il dj lo possono fare tutti. Basta che uno possegga un programma  e due controller da cento euro e già si può fare il dj. Questo è sì un male, perché comunque ha inflazionato il mercato, però è anche un bene perché, in mezzo a centomila ragazzi che fanno il dj, quelli che emergono sono quelli che veramente hanno un qualcosa da dire. Coloro che hanno cultura musicale, che hanno passione si distingueranno. Ci sono i pro e i contro in ogni periodo. Perciò se oggi uno vuole emergere, può mettere i disch,i ma deve avere una marcia in più degli altri. Quel qualcosa in più può essere denominato o carisma, o cultura o fortuna, anche se la fortuna esiste nel momento in cui si è al posto giusto e nel momento giusto, e capisci di essere lì al momento giusto. Quella è la fortuna, ma la fortuna del successo quella non esiste. Il successo non lo può stabilire nessuno cos’è, perché il talento e la comunicazione non è un artifizio, non è un artefatto. O c’è o non c’è.

Concordo con te che il talento è il tanto lavoro e ricerca

La perseveranza, l’impegno e lo studio porta ad essere preparati ad affrontare grandi situazioni, perché si hanno delle basi e fondamenta ben radicate che permettono di affrontare situazioni forti e di successo.

Una domanda personale. Un caro amico artista mi dice che i sogni vanno condivisi. C’è un sogno di Manu Marascia che vuoi condividere?

Ho viaggiato fino al 2010 in tutta Europa e ho rifiutato anche molti inviti in Brasile, in Giappone e tanti altri paesi perché terre troppo lontane per me. Dal 2010 ho deciso di smettere di fare serate all’estero perché fino a quel momento avevo vissuto per lavorare e invece volevo lavorare per vivere. Volevo dedicarmi a me stessa. Non ti posso dire che mi piacerebbe suonare in tutto il mondo, perché ho preso questa decisione in quanto l’ho già fatto, ne ho rifiutato l’offerta e non mi è piaciuto.

Era faticoso?

Molto faticoso. Tutti i giovani hanno queste immagini o idee delle super stars che suonano in ogni parte del mondo, e credono che sia un mondo dorato. Prima di tutto io non ero una super star, ero una dj che viaggiava con aerei di linea o con compagnie terribili ed orari terribili per guadagnare si delle cifre interessanti, però questa mia scelta è stata ponderata nel momento in cui  potevo anche fare a meno di queste situazioni.  Ti posso però fare presente un mio desiderio personale. Vorrei conoscere dal vivo le due cantanti degli Abba: Agnetha Fältskog e Anni – Frid Lyngstad, conosciuta come Frida.

Questo è un bel sogno

Io le sogno. Per me è una sorta di ossessione. Sono una loro fan fin da bambina e che dura fin da quando, da  piccola, mio padre, rientrando sempre con regali per la famiglia dal viaggiare a Roma per lavoro, mi regalò un mangiadischi con  45 giri di Orietta Berti, Milva, ecc.  perché volevo solo quelli. Un giorno mi portò un vinile, una raccolta degli Abba, che tra l’altro dopo 45 anni ho ritrovato un disco con quella copertina  in un negozio dell’usato e che mi sono  ricomprata. Ricordo che quando mio padre mi regalò quel disco, all’epoca il giradischi era rotto ed io per ascoltarlo avvicinavo l’orecchio alla puntina per coglierne i suoni. Da lì nasce la mia attenzione e amore per gli Abba. Ecco perché faccio dei sogni ricorrenti sugli Abba, potranno prendermi per matta, ma pazienza non è un problema.

Perché? È un bel sogno!

Sogno di interagire con queste due cantanti. Perciò il mio sogno è incontrare queste due artiste anche se so che non avverrà mai.

Mai dire mai nella vita

Questo è un mio grande sogno.

Un’ultima domanda che faccio a tutti gli intervistati. Giunge un’astronave con gli alieni e devi spiegargli cos’è la musica e che cosa è fare il dj. Sembra una domanda stupida ma è relazionata all’atto comunicativo e al linguaggio.

Potrei spiegare la musica con “Bohemian Rhapsody” perché racchiude sia la melodia, il rock, l’armonia, la lirica, la coralità, ecc. Spiegare ad un alieno non lo si può spiegare. Forse potrei inventarmi un discorso filosofico, ma non ne sono convinta. Potrei accomunarlo a uno Sciamano del villaggio che tramite un rito unisce la popolazione in quel momento. Un momento di comunione di spirito, anime e corpi per cui si abbandona tutto il resto e si è un tutt’uno col dj che suona la musica di quelli che sono venuti per quello scopo. La musica unisce in questo senso. Potrei spiegargliela come una sorta di rito, non di rito propiziatorio, ma un rito di celebrazione di unione di un momento comunitario scevro da qualsiasi altra condizione di linguaggio, cultura, razza e lingua che comunque accomuna con un linguaggio universale in quel senso. Però io non sono neanche una di quelle che da delle interpretazioni estremamente filosofiche o di grandissimi contenuti sulla figura del dj. La considero un’arte, perché lo è. Poi ci sono anche altre cose che hanno una valenza superiore a un dj.