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Suggestioni:La caduta.

Lei e’ una cara amica di vecchia data, sempre
in movimento e con l’incontenibile curiosità di una bambina monella. Accompagna
la figlia per una vista medica: una ragazza splendida, di una bellezza
singolare. Il nipotino siede composto su una sedia e sfoglia un quaderno
colorato.
La visita non pone problemi di sorta. Una discopatia con qualche
fastidio curabile. La ragazza esce col bambino subito dopo. La giornata e’ piena
di sole e la primavera la fa da padrona nella vallata di Pardu. Il bambino e’
felice come un cucciolo e corre nel parcheggio deserto.
La mia amica li guarda
dalla finestra dello studio. Si gira…”sai Toni’, sono il mio orgoglio. Ho
avuto una vita dura…ogni dieci anni sono caduta col culo per terra e ogni
volta mi sono rialzata, mi sono spolverata la gonna e ho ripreso a combattere.
Nessuno si e’ accorto mai di nulla, forse erano distratti o forse ero io a
essere così orgogliosa da leccarmi le ferite in silenzio”. Conoscendola, credo
alla seconda ipotesi.
La saluto con un abbraccio. Ha sempre la capacità si
regalarmi ottimismo. Ed e’ tanto.

Ripenso ad altri amici offesi dalla
sventura.
Non colpiti, ma offesi, perché la loro bontà d’animo avrebbe
meritato ben altro riconoscimento dalla vita, che invece li ha feriti con
ferocia insensata. E se ne sono risentiti, perché non avevano colpe da scontare.
Come una condanna subita da innocenti, senza speranza di rivalersi in alcun
modo.
Abbiamo il senso pagano della nostra esistenza, dove non esiste un Dio
giusto, ma un insieme di forze beffarde che giocano con la nostra vita, con i
nostri affetti, con i frutti amari del nostro lavoro; che godono nel distruggere
i nostri sogni.
Stroncati da quest’offesa, molti si sono ripiegati su se
stessi, non si sono più rialzati, non hanno avuto il coraggio, l’orgoglio, la
rabbia per scuotere la polvere della caduta e ricominciare. Si sono arresi,
semplicemente, hanno subito il colpo chinando il capo.
Nel mio libro delle
elementari c’era l’immagine di Cesare che cade ai piedi della statua di
Pompeo…ventuno pugnalate, sussurrava il maestro Usai, ma io ero colpito solo
dall’immagine di quell’uomo potente, che si lasciava uccidere coprendosi il viso
con la toga. Perché non si era difeso…perché non aveva afferrato per il
braccio il figlio Bruto per dirgli…no, figlio mio, non colpire, stai uccidendo
tuo padre, innocente…perché?
Lo stesso sconcerto lo vissi alcuni anni dopo
nel buio del cinema di siu Micheli, di fronte alle scuole elementari del mio
paese, dove le terze medie erano state condotte per assistere al film “Giulio
Cesare” diretto nel 1953 da Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando nel ruolo
inquietante di Antonio, Louis Calhern in quello di un Cesare fatalista, James
Mason e John Gielgud in quello di Bruto e Cassio, congiurati tormentati, che
moriranno a Filippi incalzati dal fantasma di Cesare. Anche li’, secondo
l’omonima tragedia di William Shakespeare, che il film seguiva fedelmente,
Cesare cadeva sotto i pugnali dei congiurati senza un grido, guardava sconsolato
il figlio Bruto e si copriva il viso accettando il suo destino.
Lo odiai per
questo, perché non accettavo la sua passività di fronte agli assassini.

E se
invece proprio in questo volto coperto si mostrasse la grandezza dell’uomo?
Nell’accettazione dignitosa della sventura e della morte, come parti
inscindibili della nostra esistenza, come prova suprema della nostra forza
d’animo?
Facile pensare a Gesù sofferente nel Getsemani che aspetta l’arrivo
dei soldati e il bacio di Giuda. La sua natura umana si ribella alla morte
atroce insita nella sua missione divina di Redentore, ma poi si affida al Padre
perché ne riconosce il pieno dominio sulla Storia.
Gesù si copre il volto
perché tutto sia compiuto, secondo le Scritture.
Invece, non e’ il volto
coperto di Cesare quello di Papa Wojtyla che supplica i medici…lasciatemi
andare….o quello di Attico, l’amico più caro a Cicerone, che scopre di non
avere più scampo di fronte alla malattia e saluta gli amici con una festa, e poi
si volge col viso verso il muro e si lascia morire?

Non so se accettare la
sconfitta sia una prova di debolezza. Forse e’ il contrario.
Nel carcere
Mamertino, l’antica cisterna etrusca adibita a cella per i nemici più ostili a
Roma, avvennero due episodi che hanno segnato la mia cultura: vi fu strangolato
Vergingetorige, il capo dei a Galli sconfitto da Cesare ad Alesia e trascinato
durante il trionfo per le strade di Roma; e vi fu inviato il boia per uccidere
Mario, il tenace avversario di Silla.
Il Gallo non oppose resistenza, accetto’
il suo destino, si copri’ il volto col mantello; Mario fulmino’ con uno sguardo
da belva il boia…e tu miserabile, pensi di poter solo sfiorarmi…che
indietreggiò e uscì velocemente dalla bottola che conduceva nella cella
sotterranea.
Due diversi modi di affrontare la sventura. Mi piacque Mario, ma
ebbi una pena infinita per l’orgoglioso capo dei Galli. Forse perché in tutti
noi, nella nostra anima più riposta, c’è una parte di questi due giganti della
storia.
Perché ci piacerebbe, alla fine, coprirci il volto, ma dopo esserci
alzati l’ultima volta a guardare il sole scuotendoci di dosso la polvere
dell’ultima caduta.

Tonino Serra per Medasa.it