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Fulvia, l’albero di Natale.


 

Fu brusco…lui, così mite e disposto sempre a capire gli altri.
Sapeva bene che avrebbero avuto tutti i parenti a casa per le feste di fine
anno, ma le disse seccamente che non voleva fare l’albero di Natale con
lei…una donna gelida, che lo umiliava in continuazione, che non perdeva
occasione di ferirlo e di minacciarlo anche fisicamente.
Erano entrambi agnostici, ma avevano fatto sempre l’albero di Natale, un simbolo
di pace e di serenità che forse li riportava alla loro infanzia…si sentivano
un po’ come i personaggi pieni di dubbi e di speranze del racconto di Charles
Dickens, Canto di Natale.
Ma, quell’anno, Marco si rifiutò di fare ciò che era un atto di semplice
ipocrisia, e disse di no.
Negli ultimi tempi sua moglie era diventata del tutto intrattabile, non si
faceva scrupolo di offenderlo pubblicamente, di rinfacciargli la sua
inadeguatezza, mettendo a disagio i presenti. Lentamente, anche gli amici più
fidati si erano allontanati, proprio per non trovarsi in situazioni
imbarazzanti, con lei che trattava il marito come una pezza da piedi e lui che
guardava tutti con occhi imbarazzati, quasi a scusarsi per l’incontinenza
violenza verbale della moglie.
Fulvia non era fondamentalmente cattiva. Era caratterialmente incapace di
rispettare il prossimo e da anni odiava il mondo e viveva nell’astio verso tutto
e tutti…da quando un ictus le aveva rubato due anni della sua vita e aveva
spezzato la sua carriera luminosa di docente di chimica farmaceutica. Nel
lettino della rianimazione si era svegliata d’un tratto dal mondo crepuscolare
in cui viveva da tempo, meravigliata e infastidita dalla presenza di tante
presenze silenziose in camice bianco. Poi aveva capito di essere in ospedale,
tra malati gravi, immersi in una bolla di silenzio che li separava dal mondo
esterno. Per giorni, prima di comprendere meglio il suo stato e di poter farsi
capire, aveva ascoltata il rumore gorgogliante dei respiratori automatici, il
respiro affannoso di una sua compagna di sventura, che cesso’ d’un colpo, una
notte che il camerone era illuminato dalla luna piena…e lei riprese a vivere
ricordando le parole della capricciosa Solochia, negli Stivaletti di Cajkovskij:
Ah, come brilla argentea la luna
Come si vede bene in lontananza…

Suo marito, Marco, era andata a trovarla ogni giorno.
Se lo trovava di fronte nella divisa verde usa e getta, la mascherina sul volto,
un berretto colorato che gli dava un’aria comica. E il volto tirato per
l’insonnia e la preoccupazione.
Avrebbe preferito non vederlo.
Non lo sopportava, con la sua aria dimessa e lo sguardo da cane fedele, che le
rimproverava la mancanza d’amore. Le dava fastidio che la vedesse in quello
stato, alla merce’ degli infermieri e dei medici, senza poter parlare e
muoversi, con la penosa sensazione di essere completamente dipendente da altri.
Quando fu dimessa aveva riacquistato in minima parte l’uso della parola e della
mano, ma metà del suo corpo le era diventato estraneo…un peso umiliante, che
non le consentiva di svolgere gli atti comuni e le imponeva di chiedere aiuto al
marito.
Una tortura nella tortura, perché non voleva essergli debitrice di nulla.

Lo odiava perché era più bravo di lei nella ricerca scientifica.
Marco era un matematico di fama, relatore nei più prestigiosi congressi
internazionali, docente nelle università più antiche d’Europa. Ed era benvoluto
da tutti, cercato dai colleghi e sempre circondato dall’ammirazione dagli
studenti che gremivano le aule dove teneva lezione in un silenzio pieno di
attenzione e di rispetto.
Fulvia lo scherniva per la voce in falsetto, ma quando spiegava le ultime teorie
sui problemi di Smale, gli studenti non ci facevano caso e ne subivano il
fascino perché era chiaro nell’esposizione, appassionato, pieno di amore verso
la sua materia. Solo lui riusciva a dare anima, a far pulsare come un cuore
generoso le aride formule matematiche e le banali curve geometriche, proponendo,
in termini semplici ed elementari, soluzioni innovative e audaci.
Fulvia non poteva non riconoscere la sua bravura e non lo sopportava. A lei
mancava quello spirito, tipico dei grandi ricercatori. Era bravissima, lo
sapeva, ma non era amata…troppo scostante, gelida nei rapporti umani, incapace
di slanci. Teneva le lezioni e le sue conferenze in un clima di fredda cortesia
e dopo l’applauso, che sottolineava la sua indiscutibile capacità di studiosa,
nessuno si avvicinava per stringerle la mano, per farle i complimenti.
Aveva accompagnato Marco una sola volta ad un convegno nel freddo inverno di San
Pietroburgo e fu l’ultima volta, perché si era rosa dalla gelosia e dalla rabbia
vedendo il marito sommerso dalla simpatia di tutto il congresso, conteso tra
colleghi, onorato dagli accademici. In albergo la sera lo aveva accusato di
circondarsi di cortigiani compiacenti, di sudditi e quando lui le aveva risposto
con un sorriso che forse era semplicemente gelosa…lei lo aveva colpito con un
ceffone in pieno viso, urlandogli delle volgari espressioni di disprezzo. Marco
era rimasto sconcertato, si era toccato la guancia ferita e in silenzio era
uscito dalla stanza. Il giorno dopo erano ripartiti e non si erano rivolti la
parola per tutto il viaggio transcontinentale.
Dal giorno Fulvia non gli risparmio’ umiliazioni e in pubblico si scatenava
nello schernirlo, ridicolizzando le sue ricerche…e’ capace solo di
copiare….indicando ai presenti qualsiasi difetto nell’abbinamento dei
vestiti…ma che bella cravatta, unta mi sembra…e quel colletto
sfilacciato…che scarpe rozze, oddio, e quelle calze orribili…
Marco fu tentato mille volte di lasciarla. Ci rinuncio’ perché le voleva bene e
sapeva che abbandonarla era un atto di buonsenso, ma non di coraggio. Doveva
restare con lei per difenderla da se stessa, per evitare che si abituasse a
vivere isolata nel suo odio.
Aveva affrontato alcuni del 23 problemi irrisolti di Hilbert, aveva collaborato
alla soluzione di enigmi matematici rimasti senza spiegazione per
secoli…avrebbe risolto anche il mistero di quella donna, che aveva sposato
pieno di amore per scoprirne poi la totale aridità emotiva.

Natale giunse con un sole luminoso in un cielo privo di nubi.
Fulvia era bella, come non era stata negli ultimi giorni. Un trucco leggero
metteva in risalto gli occhi nerissimi e le labbra piene erano sottolineate
sapientemente da un rossetto elegante. Marco era impeccabile in un abito scuro
con sottilissime, discrete righe chiare.
Era felice, ma sconcertato perché Fulvia passandogli vicina gli aveva
raddrizzato il nodo della cravatta. E gli era sembrato che avesse strizzato un
occhio…come per un gesto d’intesa.
Giunsero prima i fratelli di Marco con le mogli e i figli, poi i genitori
anziani di Fulvia e una sua sorella, Claudia, che stravedeva per il cognato e
lo riempiva di affetto conoscendo il carattere orribile di Fulvia.
Claudia noto’ la mancanza dell’albero di Natale, ma non fiato’ al contrario dei
genitori, che, meno diplomatici, si rivolsero alla figlia…senza albero? che
strano, il vostro e’ sempre stato il più bello e il più ricco con decorazioni
originali raccolte su e giù per il mondo…
Fulvia rise come non le succedeva da tempo…si avvicino’ a Marco che la
guardava perplesso e gli prese la mano, la strinse…vieni, venite…e li guido’
verso la porta chiusa del vicino salone, chiuso da tempo…e li’, come se si
fosse aperto un castello fatato, li accolse un albero di Natale sfavillante di
luci e addobbato….non delle decorazioni rituali…ma delle foto più belle di
Marco…Marco trionfante in mille congressi, Marco appena chino per rispondere
agli applaudi in mille lezioni…e dietro l’albero, tutti gli amici più cari, i
suoi studenti più bravi e il preside della Facoltà, che sorrideva divertito…
Quando fini’ l’applauso affettuoso di quella piccola folla che riempiva il
salone, Fulvia si strinse a Marco…lo so, sono una brava insegnante ma ho
limiti terribili come donna e come moglie, vi chiedo solo di scusarmi…da parte
mia non chiedo altro se non che, il prossimo anno, mio marito mi stia a fianco
per fare l’albero di Natale…

 

Tonino Serra.

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