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Suggestioni:Leggere e scrivere

 


A fatica riusciamo a ricordare che, quando noi abbiamo cominciato le scuole elementari, eravamo
circondati da un mondo di analfabeti.
Lo erano i nostri nonni, i grandi proprietari terrieri e i loro braccianti, le donne che andavano alla prima messa salmodiando in latino...nella vita li aiutavano e sostenevano l'antica saggezza e il buon senso, ma l'alfabeto era un perfetto sconosciuto.
Ricordiamo a malapena che in biginau i vecchi si mettevano tutti intorno alle poche persone "letterate"per farsi leggere il giornale, interrompendole per commentare e integrare quanto sentivano...dimostrando spesso più buon senso del giornalista.
Zia Peppina non sapeva leggere, ma mandava il nipote Pino a comprare ogni settimana la Domenica del Corriere o Grand hotel; e se lo faceva leggere commentando con ironia i fatti più singolari e scuotendo la testa se le notizie non erano allegre...fosse vissuta oggi, tra Isis e Fassina credo che avrebbe smesso di mandarci a comprarlo lasciandoci ai nostri giochi. Poi zia Peppina scopri' la scrittura, quell'arte magica che consentiva di rinchiudere in piccoli ricami la parola che ascoltavi...un insieme di piccoli segni rotondi, con o senza coda, di piccole zampette arrampicate sulle righe del quaderno, di merletti pieni di curve e di fiocchetti, di collinette ondulate spesso doppie...che animavano in modo indelebile quanto si pronunciava. Era un foglio scritto quello che certificava che si era sposata con siu Peppinu, che aveva comprato la casa dalla madre sia Peppica Farci, famosa pregantadora, e che il Papa aveva inviato la sua benedizione quando erano nati i suoi figli.
Ed era un foglio parlante che aveva dichiarato congedato il figlio Giovanni, che poteva quindi dimenticare la guerra in cui aveva rischiato di morire. Era così affascinata dalla parola scritta che volle imparare a fare la sua firma, accontentandosi di vergare anche solo il suo cognome...Cuboni...e quando tornai da Cagliari dove studiavo medicina, mi porse tutta felice una decina di quaderni dove aveva scritto migliaia di volte il suo cognome...le feci i miei complimenti e gelai con uno sguardo una ragazzina del vicinato, che si pestava dalle risate e stava per dirle che aveva scritto per migliaia di volte non Cuboni ma...Culoni. Sia Peppina non lo seppe mai e nessuno nell'ufficio postale le nego' mai la pensione perché firmava con quello strano cognome.
Sia Peppina aveva colmato comunque il divario tra il sentire e lo scrivere quanto si ascoltava, costruendo in poche segni neri la sua identità, dando corpo con due faticosi tratti di penna alla sua persona, che stava li', sul foglio bianco illuminato d'un tratto dalla sua presenza concreta...un nome e un cognome, scritti, che la distinguevano da tutti gli altri.
Come quelli di sia Peppina erano i tentativi commoventi di dare fisicità alla propria esistenza dei consiglieri comunali, che troviamo nei primi verbali di Consiglio del Settecento...prima mettevano una croce, poi cercavano di tracciare le iniziali del loro nome e si vede benissimo che quelle mani era abituate a maneggiare la zappa e non la penna. Credo che si sarebbero sentiti offesi se avessero saputo che il segretario comunale scriveva alla fine della seduta che i consiglieri non firmavano "per essere idioti". Ancora oggi questa frase mi ferisce...non erano idioti tutti quei contadini che onoravano il loro paese con il duro lavoro e che costruivano il futuro dei propri figli...il nostro presente. Se ci penso bene, sono vissuto per tutta la mia infanzia immerso nella saggezza dei racconti dei miei vecchi e ho assorbito la mia identità di persona e di uomo civile dalla loro oralità.
In realtà sono un semplice amanuense, come quelli medievali, che intingevano la penna d'oca in un inchiostro di bacche per scrivere quanto avevano sentire raccontare. Sono solo un raccoglitore, e neppure tanto bravo, di innumerevoli racconti, di fiabe e di storie che fisso su un foglio di carta dopo averli ascoltati a bocca aperta da cantori del passato, che nulla sapevano di letteratura scritta, ma erano dotati di una memoria di ferro che consentiva di tramandare per generazioni, oltre la morte, le tradizioni, i volti, i riti. Che poi io e altri amici siamo arrivati ad un certo punto della storia del nostro paese a scrivere quanto sentivamo in biginau e' solo un piacevole caso. Nulla mi vieta di pensare che anche io, se fossi vissuto in un'epoca lontana e fossi stato incapace di scrivere, avrei potuto raccogliere quei ricordi e raccontarli ai miei figli e ai miei nipoti nelle sere estive o vicino al caminetto; e che magari i miei nipoti avrebbero continuato a raccontarli ai miei discendenti per secoli, fino a quando, un ragazzo dal volto vagamente rassomigliante ad un nonno ormai dimenticato, non avesse cominciato a fissare quei lontani racconti su un foglio bianco che improvvisamente si animava di segni, di voci, di vita.
A casa mia non esistevano libri. I primi a comparire furono quelli che mi regalavano le mie cugine di Nuoro durante le mie trasferte estive in quel paesotto fermo ai tempi di Grazia Deledda e di Sebastiano Satta; o quei rarissimi libri dalle figure affascinanti che mi regalava la Befana e che ancora conservo come reliquie..."La giacca di Taddeo".." Lo spino fiorito"..
Ecco, i libri erano visti e vissuti come reliquiari. lo scriveva George Duby, uno storico francese cui dobbiamo le pagine più belle sulla scrittura medievale, in un articolo pubblicato dal giornale La Repubblica della "domenica 4/lunedì 5 aprile 1993", che ho ritrovato oggi mentre cercavo a perdas pesadas un libretto di ottave in sardo sulla figura di Samuele Stochino.
Nei libri, come nella mela del Paradiso perduto, si conservava il mistero della conoscenza, le regole della giustizia, la parola di Dio. I libri regalavano la parola anche a chi non sapeva leggerli, perché ne potevi ricordare e ripetere con la tua voce il racconto di vite lontane...quelle dei santi con i loro miracoli, degli imperatori, di mondi scomparsi. E dai libri imparavi a conoscere, a ragionare e a pregare.
Si pregava a voce alta, ai miei tempi, si cantavano odi in un improbabile latino che finiva in un misterioso "dominivobiscu", che mi inquietava non poco, perché sia Marianna ogni qual volta perdeva qualcosa, e non la ritrovava neppure dopo l'orazione a Sant'Antonio, diceva in tono preoccupato "depint essiri ir vobiscus"...a metà tra un folletto dispettoso e un diavolo con la coda attorcigliata, gli zoccoli da caprone e le zanne in fuori.
La scrittura era un'arte magica riservata alle formule scritte su piccoli pezzi di carta ripiegati mille volte e nascosti negli scapolari, forse con qualche immagine sacra e una medaglietta di latta della Vergine. Era un talismano potente, che ti conservava in salute, ti faceva fuggire le tentazioni...sed libera nos a malo...e impediva di morire, tanto che per consentire una morte serena veniva tolto agli agonizzanti...come a quel bandito ferito gravemente, che era morto solo dopo che la sorella gli aveva tolto lo scapolare nascosto in un gambale.
Non dico nulla di nuovo, ma impadronirsi della lettura e della scrittura ha segnato il punto più alto della nostra civiltà. Prima leggevano e scrivevano solo i preti, i notai, i giudici...e usavano formule misteriose e incomprensibili...poi, ottocento anni fa cominciarono a scrivere i primi banchieri, i commercianti, e poi gli studenti delle università. Far di conto era relativamente più facile...non per caso i bambini imparano le operazioni molto prima e più facilmente della scrittura. Alcuni sostengono che fu con la riforma Protestante che tutti cominciarono a capire l'importanza dell'istruzione: leggere significava accedere alla conoscenza della Bibbia senza intermediari papisti.
Non si era più succubi di un Libro tenuto in ostaggio dalla Chiesa, ma se ne diventava padroni e interpreti.
Quel libro si poteva leggere liberamente, lo si poteva usare per spiegare la propria vita di ogni giorno...e diventava il libro di famiglia dove scrivere, finalmente, i nomi dei figli, dei matrimoni, dei morti, e gli avvenimenti della vita...e quelle pagine quasi incomprensibili di un Dio lontano e vendicatore, diventavano la chiave di lettura della proprio storia. E se prima si leggeva il Libro sacro teatralmente, a voce alta, in famiglia, col tempo si comincio' a leggere con la mente...leggere con gli occhi significava perdersi dentro se stessi senza distrazioni...la parola scritta si faceva sentimento interiore, penetrava nella profondità del proprio animo, e passava dagli occhi al cuore. Oggi alcuni teorizzano la fine del libro.
Anche Duby, nell'articolo ritrovato del 1993, si dimostrava allarmato dall'introduzione dei computer. Come si vede, era un falso allarme. Si legge di meno, e' vero, ma il libro e la scrittura sono salvi...speriamo anche il buon senso. E' invece vero che sapere scrivere e leggere, specie con senso critico, e' il fondamento indiscutibile della libertà e dei diritti della persona. Chi oggi e' analfabeta, e' ancora schiavo delle parole degli altri, di ritualità che lo ghettizzano in posizioni subalterne...e' schiavo di formule illeggibili e incomprensibili, che diventano strumenti in mano ai potenti.
I libri letti da pochi diventano le catene di chi non sa leggere. La nostra cultura ci ha abituato a discernere il mito dalla logica, la religione dalla scienza. Per questo oggi, leggendo la Bibbia, nessuno crede più che il mondo sia stato creato in sette giorni o che Giosuè abbia fermato il corso del sole sotto le mura di Gerico...solo gli sciocchi o i fanatici oscurantisti possono credere che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra... E col tempo anche questo libro sacro per eccellenza ha perso la sua aura di mistero.
Lo abbiamo superato, avvicinandoci, per chi crede, alla figura di Dio che diventa uomo...siamo passati dal Libro esoterico alla Persona per eccellenza, sacra nella sua dignità umana. Oggi un cristiano vive la sua fede nella figura centrale di Cristo e potrebbe viverla paradossalmente anche senza leggere la Bibbia, seguendo semplicemente l'etica di tre comandamenti: "ama il tuo prossimo come te stesso" o " amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono" e "non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te". Insomma, dalla legge del taglione del Libro sacro all'etica della convivenza. Che sia questa la differenza tra il Cristianesimo e l'Islam? Che sia la fedeltà ad un'idea, ad una fede in una Persona e non in un libro immutabile nel tempo e non illuminato dalla consapevolezza delle libertà personali, la causa dell'incomprensione, quasi dell'incomunicabilità tra le due religioni monoteiste più importanti al mondo? Forse sbaglio, e sarò scusato perché non sono un teologo; eppure trovo questa tesi affascinante e rassicurante, perché mi fa capire la validità dei principi della nostra cultura.

Tonino Serra

 

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